UN’ONDA BIANCA CONTRO LA GLOBALIZZAZIONE

Le proteste dei pastori in Sardegna: un grido di rabbia contro l’abbrutimento del capitalismo.

(di Alessandro Ferrini)

Pastori sardi. Foto d’epoca in abiti tradizionali.

C’era una volta la protesta delle “quote latte”…

Sono passati diversi anni e di sicuro i più giovani non ricorderanno delle proteste contro l’Unione Europea sulle famose “quote latte”.

Era il 1997 e un gran numero di agricoltori padovani invasero l’autostrada con i trattori; spararono letame ed affrontarono scontri con il Reparto Mobile e l’Antisommossa dei Carabinieri. Solo alcune delle scene visivamente più impattanti di un lungo presidio durato quasi tre mesi in quel di Grumolo delle Abbadesse (VI), vicino al confine padovano.

Una lotta giusta, dura e disperata, fatta di solidarietà e gesti estremi che tuttavia portò a delle conseguenze negative che, come vedremo, oggi è fondamentale considerare per andare in un’altra direzione.

Errori di stima e prelievi fiscali

La quota latte corrispondeva ad un regime di prelievo supplementare, uno strumento di politica agraria comunitaria che imponeva agli allevatori europei un prelievo finanziario per ogni chilogrammo di latte prodotto oltre un limite stabilito.

Scopo teorico di tale misura era di evitare che la produzione di latte, diventando eccessiva, portasse a cali nel prezzo di vendita alla stalla, con conseguente perdita di profitto per gli allevatori.

Per l’Italia il tetto totale per il latte venduto dai produttori ai consumatori e ai consumatori fu fissato a circa 88 milioni di quintali ma se da un lato il dato fu fortemente sottostimato, rispetto alla produzione reale, dall’altro negli anni ‘90 ci fu anche un ingente traffico di latte e carni prodotti in paesi extra-europei con costi bassissimi.

Ciò ha alterato fortemente gli equilibri del mercato interno, malamente regolamentato dai gangli del potere UE che mai ha nascosto la sua indole liberista, creando il tracollo di interi comparti produttivi, soprattutto se di dimensione artigianale.

Più del 60% dei produttori hanno chiuso

Foto Federico Bernini/LaPresse , Carmagnola cronaca La marcia delle vacche. Manifestazione a sostegno dei produttori di latte italiano nella foto: la manifestazione

A causa di questo bislacca concomitanza tra controllo europeo e libera circolazione delle merci, in vent’anni 80mila allevamenti sono stati chiusi nel padovano, circa due su tre, 35mila posti di lavoro persi.

Gli effetti sono stati evidenti, parola di Mauro Giaretta, leader informale della protesta “C’è stata una fortissima selezione degli allevamenti, con stalle che hanno un elevato numero di capi rispetto una volta. I prezzi sono all’incirca il 60% in meno di allora, vale a dire che lavoriamo facendo impresa – quando prima in molti casi era artigianato – e guadagniamo la metà. Il prezzo del latte nel ’97 era di 840 lire al litro, nel 2008 26 centesimi di euro, poco più di 500 lire. Nel 2015, quando hanno tolto le quote latte, c’è stata un’euforia produttiva e almeno ora il mercato copre i costi del latte”.

E per fortuna, aggiungeremmo, ma quanto durerà questo risicatissimo equilibrio? Ad ogni modo,la trasformazione in termini industriali è già stata impressa, in modo molto rapido e violento.

C’è da chiedersi cosa rimane delle più alte qualità dell’essere umano, quando l’unico modo per sopravvivere, nel nuovo contesto della competizione globale, l’unica alternativa è estremizzare il processo, ingrandendosi sempre più divorando senza pietà i pesci piccoli o chiudere, svendendo i mezzi di produzione al pesce più grosso.

Ventidue anni dopo: una nuova grande protesta

Striscione in solidarietà con la lotta dei pastori sardi – 2019

Siamo nel 2019. Le “quote latte” non esistono più e la fortuna degli allevatori è legata a doppio filo col libero mercato.

Già da alcuni anni i pastori italiani, soprattutto della Sardegna ma anche in altre regioni d’Italia, lamentano fastidi crescenti causati da un mancato riconoscimento della qualità dei prodotti autoctoni e dall’invasione di materie prime dall’estero, in primis il latte e la carne, con così bassi costi di produzione da poter piegare la produzione locale.

Una competizione impari, quella globale, che oggi risuona come un grosso maglio sulla vita di migliaia di pastori e allevatori sardi che in poco tempo si sono trovati ad affrontare un’industria del formaggio spietata, così come è spietato il mercato stesso.

Un’industria che ha abbassato talmente tanto il compenso corrisposto per ogni litro di latte conferito, al punto che in questo inizio 2019 i 60 centesimi al litro non consentono ai pastori nemmeno la copertura delle spese.

L’ Onda Bianca

Azione simbolica dei pastori sardi – febbraio 2019

Urlano da nord a sud che quei 60 centesimi al litro non coprono le spese e che quindi è meglio darlo “a sos porcos” (ai maiali) e buttarlo, nonostante il rammarico di mandare in fumo un lavoro fatto di fatica e sacrifici.

E così la protesta si moltiplica, spontanea e autogestita, con azioni di diverso tipo: dal regalo della materia prima e del lavorato, fino agli assalti dei carichi provenienti da altri paesi europei.

L’azione più simbolica e impattante, diffusa su social-media e telegiornali attraverso decine di video, riguarda le centinaia di bidoni ribaltati e le decine di cisterne aperte a disperdere il prezioso contenuto a terra, su strade, lastricati, scalinate.

Nella memoria indelebile di centinaia di migliaia di persone resta una candida ondata che si espande sul terreno, rendendo il latte inutilizzabile.

Inutilizzabile e al contempo simbolo di un libero mercato che, in tempi molto brevi, è in grado di distruggere intere economie artigianali locali, sopravvissute per centinaia di anni.
Risvegliando una consapevolezza crescente: in questa fase di massima espansione globale e la piena adesione al modello economico unico globalista, gli stati sono totalmente incapaci di porre limiti normativi a tutela delle popolazioni nazionali.

Se nella lunga epoca capitalistica la dignità si misura nelle condizioni di lavoro più o meno accettabili, in un comparto e in un determinato luogo geografico, e nel riconoscimento economico di tale attività produttiva, l’unica condizione imprescindibile rimane la seconda, quella meramente economica: se i costi di produzione superano i ricavi, quell’attività è destinata ad estinguersi, a meno di non orientarsi verso le peggiori pratiche di sfruttamento del lavoro in un perverso meccanismo di ipercompetitività che svilisce la dignità umana.

Ed ecco che la protesta il 12 febbraio è arrivata fino a Roma, in piazza Montecitorio, dove sia pastori che produttori di olio hanno fatto sentire la loro voce. «Siamo qui perché vogliamo delle risposte», dicono gli allevatori sardi. «Il prezzo giusto deve essere almeno un euro al litro», circa il doppio del prezzo a cui sono costretti a venderlo oggi. Finora, 1 milione di litri di latte è andato di fatto perso: o regalato o dato in pasto agli animali o gettato.

Le “crepe”

E sembra di vederlo, l’austero fantasma di Karl Marx, che con un sorrisetto amaro ci sussurra “This is Capitalism, baby! Ve l’avevo detto 150 anni fa come andava a finire; quando parlavo di concentrazione del capitale, nella fase di espansione imperialistica, dormivate?”

Il mercato (soprattutto se in un contesto sovranazionale) fintamente regolamentato o del tutto deregolamentato porta, necessariamente, alla creazione di oligopoli o sostanziali monopoli privati, con pochissimi attori in gioco progressivamente più grandi e potenti, e conseguentemente alla spietata eliminazione dei piccoli.

Non c’è via d’uscita? Per definizione quella rivoluzionaria, percorso che oggi è, tuttavia, difficilmente percorribile nel breve periodo.

Ben più plausibili e realizzabili, anche perché tali processi sono già in corso, sono  quelle che molti autori contemporanei come Robert Kurz e soprattutto John Holloway chiamano “crepe”.

Crepe, o zone d’ombra, in cui comunità locali e reti di comunità sono accomunate da un’etica condivisa e si auto-regolamentano, creando di fatto delle isole economiche che si sottraggano alle ingiustizie crescenti del mercato globale.

L’Economia Solidale

Tra diversi tipi di crepa nella struttura, l’Economia Solidale e la rete nazionale dei Gruppi di Acquisto Solidale, nati negli anni ‘90, restano una grande opportunità per poter vendere, al giusto prezzo, il frutto del lavoro direttamente a gruppi di acquirenti.

No, non sono acquirenti qualsiasi ma sono già tantissimi, alcune centinaia di migliaia. L’economia solidale e i G.A.S. rappresentano una presa di coscienza in merito alla dignità del lavoratore, alla qualità dei prodotti e al rispetto dell’ambiente e in generale riguardo alla necessità di costruire un nuovo modello di società.

E’ così possibile accorciare la filiera, senza dover sottostare ai diktat sui prezzi imposti e dalla grande industria nazionale della GDO, e da paesi esportatori con costi di produzione più bassi.

Al contempo l’economia solidale permette di ricreare le relazioni umane, fino a sviluppare amicizie e rapporti mutualistici laddove l’interazione è invece basata, meccanicamente, sui ruoli di scambio economico.

Lanciamo quindi un accorato appello, affinché in questo momento la Rete Nazionale e soprattutto i singoli GAS, in autonomia, si muovano per scrivere una storia diversa rispetto a quella di 20 anni fa.

Non tutto è perduto per i pastori e in generale per l’artigianato e le piccole imprese locali ma è il momento di muoversi, ciascuno nel proprio piccolo.

Simone, Alessandro, Claudia (GASapp APS)

Dal canto nostro, non possiamo che esprimere solidarietà per i pastori in lotta e ricordare che GASapp rimane e sarà sempre a totale supporto di tutti coloro che si muovono in questa direzione.